«M’han purtà via cun su’ el mé toni del laurà»
(“Mi hanno portato via con la mia tuta da lavoro”, frase in dialetto milanese pronunciata da un operaio Pirelli deportato)
In occasione dell’ottantesimo anniversario degli scioperi del ’43, pubblichiamo questa intervista ad Antonella Loconsolo, Presidente di sezione Anpi, realizzata dagli operai Pirelli dell’area milanese attivisti del Fronte di Lotta No Austerity
La Resistenza antifascista è uno dei temi più narrati e discussi della storia italiana. Un capitolo ampio e articolato, celebrato solennemente nelle parate istituzionali o demonizzato nella caccia postuma al partigiano cattivo in altri tipi di ricostruzione, negli ultimi anni particolarmente in voga. In ogni caso troppo spesso totalmente svuotato di contesto e di significato.
Dietro quelle vicende ci sono però uomini e donne reali, spesso giovanissimi, che in quegli anni così incerti hanno avuto la forza e il coraggio di organizzarsi e dare vita a varie forme di lotta, i cui obiettivi in alcuni casi andavano oltre la cacciata dell’invasore e dei suoi complici per guardare a una prospettiva di tipo anticapitalista e rivoluzionario.
La Resistenza che noi oggi vogliamo riconsegnare alla memoria è quella degli operai dell’area milanese, delle vicende legate agli scioperi del ‘43 e del ‘44, del ruolo di protagonismo delle operaie e degli operai delle grandi fabbriche del nord e della fierezza e del coraggio di chi si è opposto alle logiche di fame e di guerra del regime mettendo a repentaglio non solo qualche ora di salario ma addirittura la vita stessa.
Ne parliamo con Antonella Loconsolo, Presidente della Sezione Anpi di Pratocentenaro “Teresio Mandelli” di Milano, quartiere adiacente alle fabbriche di Pirelli e Breda. La vivida ricostruzione che esce dalle sue parole ci riempie di rabbia per quanto avvenuto ma anche di tristezza per come quegli eventi siano oggi per lo più dimenticati, anche da chi quotidianamente calca i propri passi in quegli stessi luoghi tanto carichi di una storia che dovrebbe sentire come propria. Anche per questo facciamo nostra la proposta della Sezione Anpi di dedicare una stele ai 156 operai della Pirelli che pagarono gli scioperi con le retate, le deportazioni e nella maggioranza dei casi con la vita stessa.
Ricordare oggi la più triste pagina della storia del movimento operaio italiano però non può e non deve farci chiudere gli occhi sulla situazione attuale, o farci dimenticare come i governi che abbiamo visto succedersi in questi anni abbiano — seppure in condizioni molto diverse — continuato cinicamente a garantire la logica del profitto di pochi a danno delle condizioni di esistenza della grande massa di disoccupati e di sfruttati.
La memoria storica è fondamentale anche per guardare al presente, e come attivisti del Fronte di Lotta No Austerity sentiamo in primissima persona il dovere di dare il nostro contributo per tenerla viva.
Antonella, qual è stato il ruolo delle operaie e degli operai nella Resistenza?
Il ruolo della classe lavoratrice nel decretare la fine del fascismo è stato assolutamente fondamentale. Il primo dei grandi scioperi avviene nel marzo del 1943. L’Italia è ormai da tre anni coinvolta in un conflitto che la sta letteralmente dissanguando. Gli operai e le operaie, consci della repressione che li colpirà, sfidano il fascismo e chiedono aumenti salariali (indennità di sfollamento e di caro vita), ma soprattutto gridano in faccia alla milizia fascista che vogliono la pace. C’è anche la forza del malcontento operaio dietro agli avvenimenti che porteranno il 25 luglio alla caduta di Mussolini.
Poi, incredibilmente, nonostante l’occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale, gli scioperi continuano. Dal novembre 1943 al febbraio del 1944, allo sciopero generale del marzo 1944 considerato come il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa sotto il tallone del nazifascismo, tant’è che il New York Times ne scrisse proprio in questi termini nella sua edizione del 9 marzo 1944.
Ad ogni sciopero si paga un prezzo enorme. Hitler chiede manodopera italiana in quantità, perché gli uomini tedeschi sono al fronte e le donne tedesche non devono lavorare, devono stare a casa a sfornare figli per il Reich millenario. E poiché sono molto pochi coloro che partono volontari, nonostante la martellante campagna pubblicitaria, si ricorre sempre di più al rastrellamento e si utilizza la deportazione operaia per diffondere il terrore tra la classe lavoratrice e tentare così di mettere fine agli scioperi. Mussolini, assolutamente prono al volere di Hitler, conscio che comunque questa operazione avrebbe danneggiato la produzione, il 19 marzo del 1944, telegrafa a tutti i capi provincia invitandoli a “mettere in atto tutte le misure necessarie perché il contingente di operai richiesto dalla Germania” fosse raggiunto, e sottolineando come tale obiettivo fosse importante per “fornire una prova concreta e doverosa di solidarietà coll’alleato”.
Così ad ogni sciopero fanno seguito le retate: la polizia politica fascista, la milizia, in molti casi aiutate dalle dirigenze delle fabbriche, iniziano ad arrestare capillarmente uomini e donne coinvolti negli scioperi. Per molti di loro il viaggio nel vagone bestiame sarà senza ritorno.
E nonostante ad ogni sciopero sparissero letteralmente nel nulla tanti lavoratori e tante lavoratrici, gli scioperi continuano fino allo sciopero insurrezionale del 25 aprile. Si dimentica spesso che il 25 aprile è sciopero generale. Ancora danno i brividi le parole di Sandro Pertini: “Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.”
L’area milanese è stata fra i principali teatri della deportazione operaia; nello specifico puoi raccontarci le principali storie di Resistenza?
Difficile dire quali furono le storie principali. Se prendete i libri di Giuseppe Valota, figlio del deportato Guido, lavoratore della Falck e della Breda che lasciò la vita in una “marcia della morte”, vedrete che ogni operaio e operaia che ha subito la deportazione ha messo un tassello importante per sconfiggere il nazifascismo e arrivare alla Liberazione. C’erano, ad esempio, e lo racconto perché la loro storia è ignorata dai più, i “Gruppi di difesa della donna”. Erano donne che raccoglievano tra gli operai dei soldi da usare per acquistare beni di prima necessità, armi e munizioni per i partigiani e che presto si trovarono a dover pensare alle famiglie dei deportati. Statisticamente erano di più i deportati uomini e la mancanza del salario del capo famiglia era una condanna alla fame. Dal 20 gennaio 1927, infatti, Mussolini aveva dimezzato il salario delle donne, per indurle ad essere esclusivamente fattrici, madri di quei famosi otto milioni di baionette da mandare al macello.
I “Gruppi di difesa della donna” si occupavano quindi anche di aiutare economicamente quelle famiglie il cui padre era stato deportato.
Le donne per partecipare alla Resistenza dovevano essere ancora più eroiche degli uomini, visto il trattamento orribile e le violenze sessuali che era loro riservato all’arresto e che tutti ben conoscevano.
Antonella, sappiamo che come sezione Anpi avete fatto una ricerca sulla deportazione degli operai Pirelli del 23 novembre del ‘44, puoi raccontarci come si svolsero i fatti?
Nonostante il clima di terrore che ormai si respirava a Milano, nonostante gli arrestati si volatilizzassero letteralmente, non dando più alcuna notizia di sé, si arrivò comunque alla proclamazione dello sciopero generale che scatta il 23 novembre. Alla Pirelli il segnale per il via dell’agitazione viene dato dalle sirene dello stabilimento e il lavoro si ferma. L’intervento dei reparti SS, guidati da Saevecke, è immediato. Vengono arrestati 183 operai nel corso di una vera e propria caccia all’uomo. Tra loro il ragionier Mario Cerea, responsabile della mensa, che piuttosto di lasciare gli operai sui camion senza pane reagì verso i tedeschi che lo presero come ostaggio. Il Cerea é uno dei tre che poi riuscirono a fuggire durante il trasferimento nei lager. Il 27 novembre 156 lavoratori vennero deportati in Germania. Dei 156 deportati, 30 finirono a lavorare a Kahla in Turingia, 10 morirono in quel lager. Da un po’ di anni coltiviamo il sogno di dedicare una stele ai 156 operai che pagarono lo sciopero della Pirelli con la deportazione. Chissà che non si riesca in vista dell’ottantesimo anniversario, nel novembre del prossimo anno. Un luogo dove ricordarli, con le testimonianze di chi è miracolosamente riuscito a tornare. “M’han purtà via cun su’ el mé toni del laurà”, mi hanno portato via con la mia tuta da lavoro, diceva ancora incredulo a distanza di decenni un operaio. “La galleria ti entra dentro e non esce più”, ricordava un altro, destinato al lavoro nelle fabbriche sotterranee del Reich. Per tutti loro, e per coloro che non hanno potuto nemmeno parlare delle barbarie alle quali sono stati sottoposti per il solo crimine di aver scioperato, sarebbe fondamentale un luogo della Memoria.
Un’ultima domanda, Antonella: perché credi sia importante che gli operai oggi conoscano queste storie?
Nel celebre Discorso sulla Costituzione del 1955 Piero Calamandrei disse: “…la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai”.
È un po’ la stessa cosa per i diritti, quando incominciano a mancare ad uno ad uno, inizialmente non ci si fa caso. Ma il lavoro senza diritti porta alla schiavitù, il lavoro senza diritti è fame e morte. Gli operai e le operaie devono conoscere i sacrifici di chi ha dato la vita per tornare ad avere dei diritti, devono ricordarsi in ogni momento della loro giornata lavorativa che questi diritti sono fondamentali, che niente e nessuno deve poterceli togliere e che nulla può essere barattato con essi.