Intervista a una ricercatrice precaria dell’Università di Bari.
Da circa un anno si è sviluppato in Italia un coordinamento di ricercatori universitari precari che ha avviato una serie di mobilitazioni per portare all’attenzione del Ministero dell’Università il principale problema di questa categoria: l’assenza di una seppur minima garanzia di stabilizzazione in ruolo nell’università. Si tratta di giovani e talvolta meno giovani lavoratori con percorsi di precariato talvolta decennale o, in taluni casi ventennale. A fronte di oltre 40.000/50.000 ricercatori precari, i vari ministri dell’istruzione che si sono susseguiti negli ultimi anni hanno emanato concorsi solo per 1000 o al massimo 2000 posizioni accademiche annue. Un numero assolutamente irrisorio ma che segue la ferrea legge dei governi borghesi, che hanno scaricato sulla scuola, sull’università, sulla sanità e sul comparto pubblico in generale i costi della crisi economica, per salvare i profitti del capitalismo finanziario italiano.
Senza il contributo di questo settore di ricercatori precari, che regge per oltre il 50% il carico didattico delle università italiane, le università sarebbero collassate da tempo o avrebbero dovuto dimezzare l’offerta formativa. Ciò nonostante, tutti i governi che si sono susseguiti dopo la scure inferta al sistema della ricerca pubblica da parte della cosiddetta “Legge Gelmini” non hanno mai affrontato la questione.
Proponiamo di seguito un’intervista a una brillante ricercatrice dell’università di Bari, Marilena Filippucci, che attualmente fa parte di un gruppo di ricerca che gestisce una rete sismica dell’università di Bari. Nonostante abbia conseguito risultati originali nell’ambito della ricerca scientifica, con premi e riconoscimenti vari, Marilena risulta precaria da circa diciassette anni.
Allora Marilena, potresti raccontarci il tuo percorso di precariato nell’Università?
Ho iniziato nel 2003 con il dottorato di ricerca e, a parte un biennio in cui sono stata senza alcuna copertura contrattuale, per mancanza di fondi da parte dell’università, e ho lavorato nella scuola, sono arrivata ad oggi con un contratto da ricercatore tempo determinato tipo A (RTDA), passando per 3 assegni di ricerca.
Ci sono maggiori difficoltà per l’accesso alla carriera accademica per una donna nell’università italiana?
In una società organizzata in questa maniera, il lavoro domestico grava principalmente sulle donne, rendendo più arduo il loro percorso lavorativo.
Ma oltre all’attività di ricerca, svolgi anche attività didattica?
Come da contratto, svolgo anche attività didattica. Sono docente incaricata per un corso di Fisica Terrestre dell’Università.
Ci spieghi come mai è stata abolita la figura di ricercatore a tempo indeterminato?
Trovo incomprensibile questa scelta.
Ci spieghi per quale ragione, dopo il dottorato, vi sono tre figure di ricercatore precario (assegnista, Rtd/a e Rtd/B)? A cosa servono e in cosa differiscono?
La differenza è nella tipologia di contratto. L’assegno di ricerca è una borsa di studio, che non prevede attività didattica, ed è inquadrato nei contratti parasubordinati (cioè autonomi) nella gestione separata dell’INPS (quella in cui ricadono i lavoratori con partite IVA); RTDA è un contratto a tempo determinato della durata di 3 anni rinnovabile di altri 2, con un numero minimo di ore di didattica frontale obbligatoria, che esiste solo nell’Università e non prevede un percorso di stabilizzazione; RTDB è un contratto uguale all’RTDA ma prevede la stabilizzazione del ricercatore alla fine del primo trienno in una posizione superiore (professore seconda fascia). Questa peculiarità rende l’RTDB un contratto nettamente più costoso rispetto all’RTDA e poiché si stabilizza nella figura di professore necessita di una programmazione delle necessità didattiche interne dei Dipartimenti universitari. L’assegno di ricerca, al contrario di RTD A e B, viene impiegato anche negli enti di ricerca e nell’ambito della legge Madia ha dato la possibilità ai ricercatori di accedere alle stabilizzazioni. Le stabilizzazioni sono invece (ingiustamente) non consentite per l’Università e il passaggio da RTDB a professore è consentito solo se il ricercatore è in possesso di abilitazione scientifica nazionale.
Per quale ragione è stato creato un percorso di precariato così lungo e articolato?
Con queste diverse tipologie le università possono impiegare un maggior numero di ricercatori precari risparmiando sui loro salari, poiché l’assegnista costa meno del RTD/A e questi del RTD/B.
Puoi spiegarci con quali criteri si può accedere al ruolo di ricercatore precario di tipo b?
Si accede se in possesso del dottorato e di un periodo di tre anni come assegnista o come RTDA. Di fatto il possesso dell’abilitazione scientifica nazionale è un criterio fortemente favorevole.
Quindi non è automatico che un RTD/a in possesso di requisiti diventi RTD/B?
No.
Se un Rtd/B non riesce ad ottenere l’abilitazione per professore associato, cosa fa alla fine di questo lungo percorso di precariato?
Ha la possibilità di un rinnovo biennale per cercare di ottenere l’abilitazione, scaduto il quale è fuori dal sistema, magari dopo un lungo percorso di precariato.
Mi dici la tua opinione sul fatto che il profilo di un ricercatore venga valutato dal numero di citazioni dei suoi articoli, oltre che dal numero degli articoli?
È un criterio che non ha una sua logica e che di fatto favorisce i ricercatori che lavorano in gruppi ampi, su tematiche di largo interesse, non oberati di attività didattiche. La cosa più frustrante è che non si capisce perché il ricercatore universitario sia vessato dal raggiungimento di soglie (citazioni, numero articoli, etc) e i ricercatori degli enti non siano sottoposti a queste angherie.
Pensi che la natura precaria del contratto di lavoro consenta realmente ai ricercatori di poter svolgere con serietà il loro lavoro? Oppure a causa di questa fretta di produrre “prodotti della ricerca” la qualità e l’accuratezza del lavoro scientifico passi in secondo piano?
La precarietà non dà la possibilità a chi lavora di farlo con la dovuta calma e attenzione.
Pensi che i criteri introdotti dalla Legge Gelmini consentano realmente di valutare il profilo di un ricercatore?
Come ho già detto, di fatto sono favoriti i ricercatori che lavorano in gruppi ampi, su tematiche popolari non oberati di attività didattiche.
E ritorniamo ai criteri di accesso alle posizioni stabili nell’università. Mi spieghi perché in questi criteri non viene valutato il contributo all’attività didattica svolta dai ricercatori precari? Non costituisce un problema nel confronto con i curricula di ricercatori provenienti da enti non universitari, che possono dedicarsi a tempo pieno alla ricerca, non essendo costretti a insegnare all’università?
Questa è una delle grandi disparità nell’arruolamento del ricercatore da parte degli enti di ricerca e da parte delle università.
Come mai, nonostante le grandi difficoltà nel poter accedere a un ruolo stabile nell’università, dal mondo dei ricercatori universitari precari si sono levate, sino ad oggi, solo proteste così flebili?
Credo che sia principalmente dovuto al fatto che l’università non è un ente unico ma tanti enti indipendenti e il personale anche precario non è coordinato a livello nazionale ma eventualmente, e nemmeno, a livello locale, dove i però numeri sono molto ridotti, se presi singolarmente.
Quali forme di lotta avete provato ad intraprendere nell’università, o pensi sia necessario intraprendere, per porre fine al vostro precariato?
Praticamente nessuna. Credo sia necessario un coordinamento nazionale e credo vadano livellate (verso l’alto ovviamente) le varie figure contrattuali del ricercatore (assegnista, ricercatore negli enti di ricerca, ricercatore tempo determinato tipo A e tipo B dell’università, ricercatore tempo indeterminato dell’università) con la creazione di una sola figura di ricercatore con un’unica modalità di reclutamento.